Crisi della Conoscenza, crisi del Lavoro, crisi della Repubblica?
Non si può accettare questa logica, bisogna ripristinare un’azione di pensiero che porti a una politica più attenta sia all'istruzione, sia al lavoro; meno autoreferenziale e capace di vedere e rispettare la dimensione scientifica dei problemi
In un suo intervento sul Corriere della Sera di domenica 2 febbraio u.s. Maurizio Ferrera rilevava amaramente come la politica italiana non sembri più in grado di ascoltare gli “esperti”, ovvero coloro che per competenza ed esperienza possono contribuire se non alla soluzione, almeno alla corretta impostazione dei molti problemi che affliggono la nostra comunità nazionale (anticipo in prima pagina; articolo a p. 28 dal titolo emblematico: La politica senza visione che beffeggia gli studiosi). Viene quasi automatico collegare questa constatazione alle inquietanti riflessioni che Luca Ricolfi espone nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano, 2019) a proposito del degrado culturale che caratterizza la realtà italiana di oggi, conseguente alla decadenza irreversibile degli studi scolastici.
Lo tesso Ricolfi in apertura del suo libro, quasi a mo’ di chiave musicale, riporta una lapidaria frase di Ralf Dahrendorf che merita di essere citata: “La società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla”. E così, possiamo affermare, il cerchio si chiude. Il degrado è come un domino: le successive e quasi automatiche crisi di scuola, competenze, lavoro, politica portano inevitabilmente al disprezzo della conoscenza.
La Knowledge Economy, propugnata dal Documento di Lisbona del lontano 2000, diventerà per l’Italia sempre più un tragico miraggio, se non saremo in grado di affermare a ogni livello la Knowledge Society, ovvero la Società della Conoscenza. Potremmo negare la nostra preoccupazione di fronte al rischio che questo circolo vizioso porti alla crisi della Repubblica, che appunto in quanto “fondata sul lavoro” sembra aver esaurito il suo ciclo storico? Dovremmo prepararci alle “esequie della Repubblica”?
Non si può accettare questa logica, bisogna ripristinare un’azione di pensiero che porti a una politica più attenta sia all'istruzione, sia al lavoro; meno autoreferenziale e capace di vedere e rispettare la dimensione scientifica dei problemi. Una politica che deve ritrovare le dimensioni dell’ascolto e della competenza e saper interpretare le paure e l’insicurezza proprie di questo momento storico di grande e frenetica evoluzione, per tradurre la propria azione in risultati concreti. Una politica che, in ultima analisi, partendo proprio dai cambiamenti in atto (due esempi su tutti, la globalizzazione e l’innovazione tecnologica), sia in grado di dettare l’agenda delle priorità del Paese.
In altre parole, dobbiamo far sì che le soluzioni possibili per i nostri mali non vengano brandite dagli schieramenti politici come armi improprie per far fuori gli avversari. I problemi sono di tutti e chi non se ne fa carico, lavora contro la comunità civile. Ci sono scelte che comunque devono essere fatte, strade che devono essere battute, decisioni che devono essere prese da chiunque sieda nella stanza dei bottoni.
Un esempio clamoroso è quello dell’Autonomia regionale. Da una parte propugnata come la soluzione di tutti i problemi, dall’altra demonizzata come il principio della disgregazione nazionale. Questo scontro è diventato particolarmente acuto soprattutto in tema di organizzazione scolastica. Ebbene, già nel DPR 275 del 1999-Regolamento delle istituzioni scolastiche si parla di Autonomia. Non è forse opportuno cercare negli spazi aperti da quel regolamento le vie per una interpretazione ad assetto variabile dell’organizzazione scolastica in modo che ogni regione abbia la possibilità di calibrare le sue scuole sulla propria realtà territoriale in modo vitale, dinamico, concreto e non rigido, sclerotico e burocratico?
Le possibilità ci sono, basta saperle vedere e renderle attuabili. Prima fra tutte non è stata considerata la regola relativa al tempo scuola e al rapporto fra aziende e preparazione scolastica. Se gli studenti devono svolgere almeno 200 giorni di lezione, non è detto che questi debbano essere realizzati solo nelle aule scolastiche. L’alternanza scuola lavoro apriva spazi interessanti, ma è stata applicata in maniera bulgara e frettolosa a ogni ordine di scuola. Istituti Tecnici e Istituti Professionali hanno esigenze ben diverse rispetto ai Licei.
Autonomia regionale significa quindi concordare con il Ministero forme avanzate e nuove di organizzazione dello studio e del rapporto con il mondo del lavoro. Questo è solo un esempio, ma apre nuovi orizzonti. Prima di chiedere l’impossibile, una politica intelligente attua concretamente tutto ciò che è possibile. Ma se non si ascoltano gli esperti ogni programma politico resterà un libro di illusioni, più ancora che di sogni. Certo ci sono poi i grandi problemi connessi con le risorse e come vengono distribuite nei territori più virtuosi come il Veneto.
Ma anche in questo caso non è difficile comprendere che un simile obiettivo non può essere un punto di partenza, bensì la meta di un lungo lavoro di dialogo e fiducia reciproca fra istituzioni. Insomma è ora che prendiamo coscienza che la nostra regione non può continuare a scontrarsi con il governo centrale e che solo nel dialogo possono essere conseguiti risultati concreti per il bene dell’intero paese.
Riportiamo al centro della dialettica i temi che sono fondamentali per la tenuta e la crescita delle nostre comunità. La scuola fa rima con lavoro in una democrazia matura che pensa al proprio futuro. La classe politica e quella dirigente si interroghino sul loro ruolo, che non è la gestione del consenso nell'epoca dei like, ma la tensione a costruire un Paese migliore senza perdere le nostre conquiste sociali.
Articolo pubblicato su La Nuova Venezia del 18 febbraio 2020

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